Francesco Cossiga


Da La Nuova Sardegna
15 maggio 2002

"L'Autonomia? Dipende
solo da noi sardi"


Cossiga illustra le ragioni che l’hanno spinto
a presentare in Senato il progetto di legge
per la riforma dello Statuto regionale

di Filippo Peretti

ROMA. Nella sua casa tappezzata di bianche librerie stracolme ma ordinate, Francesco Cossiga è seduto nella poltrona dello studio: una mano sul telecomando per far scorrere sul video le ultime notizie, l’altra al telefono, che non cessa di suonare. Poi, in questo rifugio strategico, si fa il silenzio. Il senatore vuole parlare solo della sua isola e della sua passione più recente: la riscrittura integrale dello Statuto, che ha voluto chiamare «Costituzione» o «Noa Carta De Logu». La proposta di legge già depositata a Palazzo Madama non parla di «Regione» ma di «Comunità autonoma della Sardegna». E’ «il testamento politico per la mia terra». Il messaggio è chiaro: i sardi non saranno mai autonomi se non recuperano i veri valori della loro storia.

— Presidente Cossiga, la sua proposta di legge ha suscitato reazioni diverse e anche qualche sorpresa.
«Ma non è un’invenzione estemporanea, è un’iniziativa che trae origine da molte considerazioni e che ha varie cause».

— Molti, nel disegnare il nuovo Statuto, cercano formule moderne e originali, mentre il suo testo attualizza le antiche tradizioni storico-istituzionali della Sardegna e prende spunto dall’esperienza catalana. Perchè?
«La mia profonda consapevolezza della naturale autonomia storica, culturale e linguistica della Sardegna e dei sardi è maturata non solo attraverso la conoscenza della sua storia, nella quale molto sono stato aiutato dall’amico Cesare Casula, ma anche attraverso i miei frequentissimi viaggi a Barcellona e in generale in Catalogna».

— Qualcuno ha però storto il naso dicendo: è una proposta calata da Roma.
«Credo di avere una conoscenza non comune della Sardegna e del suo popolo per aver battuto le strade, le contrade, i paesi e le città da quando avevo quattordici anni ed ero propagandista della gioventù dell’azione cattolica, e poi ancora da dirigente della Dc e quindi da deputato e senatore. Se prendo l’elenco non solo dei Comuni ma, per la Gallura e il Logudoro, persino delle frazioni, posso ben dire di averli visitati tutti, almeno una volta».

— Fra le righe del testo si legge il recupero dell’orgoglio sardo. E’ così?
«Devo le mie convinzioni anche alla fierezza delle mie origini pastorali chiaromontesi e alla mia discendenza da un grande poeta in lingua sarda, Bainzu Cossiga, padre di mio nonno, al cui mito sono stato sempre educato. E lo devo alla cucina di mia nonna silighese e ai così chiamati servi e”tzeraccas” che mi hanno raccontato la storia, forse fantastica, di quelle terre e mi hanno insegnato i costumi e la lingua logudoresi».

— Perchè non è diventato sardista?
«L’educazione politica in famiglia è stata quella: mio padre era sardista e tutta la mia famiglia era sardista. Credo di aver dirazzato solo io».

— Non c’è una contraddizione?
«Ma la Dc delle origini era caratterizzata da un fortissimo autonomismo, nata com’era dalla confluenza dei giovani popolari come Antonio Segni, formatisi all’opposizione durante il fascismo, prima fra tutti Salvatore Mannironi, e dal gruppo battagliere di cristiani democratici di Pietro Fadda e Giuseppe Masia, quasi indipendentisti».

— Lei ha sempre avuto, comunque, un buon rapporto con il Psd’Az.
«Ho avuto la fortuna di aver conosciuto i grandi leader del sardismo, da Lussu a Puggioni, a Contu e Mastino, e soprattutto un mio zio da parte materna, Camillo Bellieni, che è stato il teorico non solo del sardismo ma anche delle iniziative regionaliste».

— Quanto ha inciso, nella proposta, la sua esperienza politica vissuta interamente a livello nazionale?
«Parecchio, perchè mi ha convinto che il fallimento, se non economico, almeno completamente, dell’autonomia sarda era dovuto non solo alle condizioni istituzionali e storiche in cui si è sviluppato lo Stato italiano, che nonostante la lettera della Costituzione è sempre stato centralizzato, ma alla mancanza di una solida coscienza autonomista che andasse al di là della pura retorica e della querula rivendicazione e che affondasse le radici nella cultura, nella lingua e nei costumi».

— Vuole dire che i sardi non sono veri autonomisti?
«E’ mancata la consapevolezza di essere una Nazione compiuta, quasi una Nazione senza Stato».

— Si è scoperto indipendentista?
«Il termine Nazione incompiuta usai la prima volta a Cagliari durante la presentazione di un libro scritto su di me dall’algherese catalano Pasquale Chessa e poi durante un convegno dell’associazione politico culturale del giovane amico Gian Mario Selis».

— Altri, per questo, sono stati accusati di separatismo.
«La mia frequentazione di altre Nazioni senza Stato o che lo Stato avevano conquistato durante lotte durissime e sanguinose non ancora concluse, mi diedero invece la coscienza dell’importanza che questo tipo di comunità hanno in se stesse, per la vita degli Stati e delle Nazioni più ampi di cui fanno parte e persino per la formazione dell’Europa unita».

— A quali si riferisce?
«All’Irlanda, alla Scozia, alla Bretagna, al Galles, alla Navarra e alla prediletta Catalogna, cui ci legano quattrocento anni di storia comune. E naturalmente ai Paesi Baschi. La mia passione è maturata anche con l’appoggio da me dato alla causa basca, per la mia vicinanza al partito basco, il primo partito cattolico democratico, che Aznar, acerrimo nemico dei nazionalismi, ha provveduto a far cancellare dall’internazionale popolare, di cui il partito basco è stato uno dei fondatori quando il giovane Aznar militava nei movimenti giovanili franchisti sotto la dittatura».

— Si sente più italiano o più sardo?
«Le mie convinzioni non intaccano minimamente il mio essere e sentirmi italiano e insieme”nazionalitario” sardo».

— L’Autonomia come occasione mancata? «Alla causa del Risorgimento la Sardegna nel 1847 ha sacrificato la sua autonomia e indipendenza, i propri ordinamenti rappresentativi, anche se negletti dalla Corte di Torino, la sua bandiera, il suo piccolo esercito e la sua piccola gendarmeria, ma anche i suoi ricordi e la sua storia».

— E lei cosa ne pensa?
«Cito Cesare Balbo, che aveva invitato la delegazione di politici e intellettuali sardi che si era recata a Torino per chiedere la perfetta fusione con gli Stati di terraferma. Egli ammonì:”Voi rinunciate a qualcosa per la quale gli irlandesi lottano, sacrificando anche la vita, da oltre quattrocento anni”».

— Non tutti sono però convinti che si possa essere assieme italiani e”nazionalitari” sardi.
«Posso comprendere che lo dicesse Lawrence nel suo piccolo e bellissimo libro”Il mare e la Sardegna”. A contatto con la terra e la gente sarda si era posto la domanda come mai la Sardegna facesse parte dell’Italia. Egli, infatti, aveva della Nazione un concetto tra l’anglossassone e il giacobino e non comprendeva che la Nazione può essere unità di valori e frutto di scelta e che la Nazione sia, pur nella diversità delle lingue e delle culture, ciò che un grande politologo e storico defininì appunto una Nazione di volontà».

— Il destino era segnato?
«Credo che se Cavour non fosse prematuramente morto, il progetto che egli aveva di riordinamento locale dell’Italia unificata e che era stato presentato da un altro cattolico liberale, Minghetti, e che dava spazio all’autogoverno delle comunità storiche, sarebbe stato tutto diverso e non avremmo avuto ancora il macigno della questione meridionale. Non dimentichiamo che due furono le anime del Risorgimento, quella rigidamente unitaria di Mazzini e quella federalista di Cattaneo, nonchè dei cattolici liberali Gioberti, Balbo, Rosmini. Se non ci fosse stata la politica antiunitaria del Vaticano, che portò al dramma della rottura civile della ancora non costituitasi comunità della Nazione italiana, diversa sarebbe stata anche la ricchezza politica e la consapevolezza democratica della Nazione e forse avremmo anche evitato il fascismo e la dittatura».

— Si può dire che è in base a quelle esperienze che lei ammonisce, oggi, contro i facili entusiasmi sull’Europa politica?
«La mia posizione muove appunto anche dall’esperienza che faccio dell’Europa. Una Europa che rischia di nascere senz’anima, non ricordando le sue origini giudaico-romane, il vero atto di fondazione che fu nella notte di Natale dell’anno 800 l’incoronazione di Carlo Magno. Quel filo di cristianità poi rotto politicamente dalla Riforma e dallo Scisma».

— Non crede nell’Europa politica?
«E’ un’Europa che rischia di essere una fredda costruzione ingegneristica e tecnocratica. Ma un’iniezione di democraticità dal basso, come contrappeso, può essere dato proprio dalle Regioni storiche e delle Nazioni senza Stato. Per quanto riguarda l’Italia metto la Sardegna, il Friuli, la Valle d’Aosta e il Tirolo del Sud».

— E crede nel federalismo italiano?
«Io non credo che il federalismo istituzionalmente inteso possa esere reclamato in tutto il Paese. Forse sarebbe stata la forma migliore per costruire anche moralmente lo Stato italiano, ma l’occasione è passata».

— Perchè non ci crede?
«Perchè passare da uno Stato centralizzato a uno Stato federale è quasi impossibile, salvo che non si tratti di recuperare, dopo parentesi drammatiche come la dittatura del nazismo, forme preesistenti tipo i Lender tedeschi».

— Crede, però, nelle autonomie speciali.
«Penso che l’Italia possa avere un federalismo assimetrico o, come si dice, autonomie differenziate. Ma anche questo ordinamento di autogoverno può avere valore se nasce dal basso e non elargito dall’alto, o almeno dall’incontro tra le due volontà».

— E’ per questo che ha lanciato la sua proposta?
«Sì. Da europeo, da italiano e da sardo. Ho sentito il dovere di offrire anche se una piccola cosa al popolo sardo, alla cui volontà politica devo la mia vita di onori pubblici e in fondo la ragione pratica della mia esistenza. L’idea dell’Assemblea costituente sarda. E ho voluto occupare uno spazio nel Parlamento, come per mettere un cappello sulla sedia. La mia proposta al Senato è aperta alla firma di tutti i senatori sardi o nati in Sardegna. E un gruppo di deputati sardi intende presentare alla Camera questo progetto di Comunità autonoma».

— Rispetto allo Statuto, la sua proposta è totalmente differente.
«Ho voluto cambiare anche il nome burocratico di Regione in quello più umano di Comunità, attraverso l’adattamento della Costituzione della Generalitat di Catalogna ai principi costituzionali sardi e alle tradizioni storiche sarde, dagli Stamenti all’Udienza generale, dai Giudicati alle Curatorie sino alle antiche Città regie, i cui stemmi fanno bella mostra di sè in una delle sale del municipio di Barcellona e di cui si trovano tracce nel Pantheon della dinastia che partendo dal Nord dell’Aragona creò quella prima confederazione di Stati, la Corona d’Aragona per l’appunto, che oltre il Regno d’Aragona comprendeva il Principato di Catalogna e l’autonomo Regno di Sardegna».

— Se avrà le adesioni che sono state annunciate, significa che la sua proposta andrà avanti. E’ ottimista?
«Ma non è questa la strada per rifondare l’Autonomia».

— Come sarebbe?
«Non credo che nel centro destra e nel centrosinistra dei partiti centrali sarebbero disposti ad approvare una sifatta iniziativa».

— Qual è allora la via?
«La strada è quella dell’autoconvocazione di un organo costituente sardo che per non spaventare i tiepidi, anzichè Assemblea costituente, il nome che per primo le diedi, avrebbe quello di Convenzione costituente».

— Qual è la differenza?
«Il nostro Statuto e la Costituzione italiana non ci permettono di istituire un’Assemblea costituente nel senso tecnico del termine. Io la concepisco più come assemblea politica propositiva dal basso, espressioni della comunità politica e civile e dell’insieme delle autonomie locali, non come organo civile. In questo senso si muove la proposta di legge presentata d’intesa con me dall’amico Mario Floris in consiglio regionale assieme agli altri consiglieri regionali dell’Udr, il piccolo partito sopravvissuto all’attacco congiunto del centro-destra di Berlusconi e dal centrosinistra, senza trattino, di Prodi e Veltroni. Ed è strano che alle idee che ne erano fondamento cerca adesso di”informarsi” la Margherita...».

— Comunque ha già ricevuto numerose adesioni.
«Le prime sono arrivate dagli amici sardi consiglieri regionali e parlamentari del partito dei Ds, e in primis il presidente della commissione Autonomia Emanuele Sanna. E dal presidente del consiglio regionale Efisio Serrenti, dall’amico sardista Mario Melis, che comosso, ha ricordato le nostre comuni radici sardiste. Non dimentico che il mio ultimo comizio, prima di andare al Quirinale, lo tenni a Nuoro per le elezioni europee. Mario Melis si infervorò, salì sul palco e mi appuntò sulla giacca il distintivo dei quattro mori che ho ancora. E adesioni ho ricevuto dagli amici Popolari e Democratici del consiglio regionale, che incontrerò prima della riunione conviviale. E un’adesione moralmente e culturalmente entusiasta mi è giunta anche dal caro amico Diliberto, che ha voluto ricordare le nostre discendenze sardiste».

— Dal centrodestra, invece, solo dissensi. Come se lo spiega?
«Mi giungono notizie di segni d’insofferenza dalla parte di componente An della Casa delle libertà, mentre tace in un silenzio imbarazzato, rotto peraltro da adesioni confidenziali ma non pubbliche di suoi esponenti nazionali e regionali, la voce ufficiale di Forza Italia in Sardegna che, ahimè, è il non sardo Romano Comincioli, che nonostante il nome di battesimo è milanese».

— Il «braccio destro» di Berlusconi è già stato bersaglio di suoi attacchi. Perchè?
«Comincioli è noto in Sardegna più come avveduto uomo d’affari che non come uomo politico. Una specie di commissario straordinario o federale regionale imposto dall’alto, al quale non si può onestamente chiedere che conosca la storia sarda, il movimento autonomistico, le tradizioni e la cultura sarda».

— Un «no» secco è però venuto soprattutto dal Movimento per l’Assemblea costituente.
«Forse Massimo Fantola e gli altri amici riformatori credono che sia possibile ottenerla da questo Parlamento. Ma dopo l’approvazione della riforma del Titolo V della Costituzione e nonostante la presenza della Lega nella maggioranza e di Umberto Bossi nel governo come ministro delle Riforme, non si riesce ancora a varare, soprattutto per l’opposizione di An e del Cdu, una riforma che sia più incisiva di quella del centrosinistra. Immaginiamoci se c’è spazio politico-culturale per una legge costituzionale del consiglio regionale che, udite udite, dovrebbe istituire dall’alto un’Assemblea costituente sarda».

— La sua proposta è stata infatti interpretata come un siluro all’Assemblea costituente.
«Ma io e l’Udr sarda abbiamo pensato a qualcosa di più modesto ma immediatamente realizzabile e con un nome diverso proprio per non ostacolare l’iniziativa di Fantola & C.».

— Ma le due ipotesi sono giudicate comunque in contrasto.
«Se i sardi si dividono su questioni giuridiche e nominali, vuol dire che i tempi non sono ancora maturi».

— Prevalgono, cioè, le concorrenze politiche?
«L’ambizione è una condizione dell’impegno politico. Si sappia che io non aspiro né a essere componente né presidente di un’eventuale Convenzione costituente. Se qualcuno ha questo timore sono pronto a prendere l’impegno a difendere solo nel Parlamento nazionale questo autonomo processo politico sardo. E se proprio lo si vuole, stiano tranquilli Fantola e gli altri che ritengono di avere diritto di primogenitura, cosa che avvenne anche tra Caino e Abele, perché sono pronto a dichiarare davanti a un notaio di Cagliari e a depositare il relativo atto notorio nelle mani del presidente del consiglio regionale».

— Un problema di leadership?
«Non si offenda Fantola, ma non ho mai conosciuto nessun vero uomo politico né vero uomo di Stato, salvo San Tommaso Moro Martire, che non abbia sofferto di ambizione e di invidia. E questo vale anche per me, immaginatevi se non va bene anche per gli altri».

— Qualcuno ha pensato che il vero obiettivo dell’iniziativa Cossiga-Floris sia la crisi politica alla Regione. E così?
«Cosa c’entra. Sono cose ben diverse».

— Ma se ne parla, anche perchè c’è rivalità nella maggioranza tra l’Udr e il Polo.
«Io non c’entro nulla con l’Udr sarda. Sono cofondatore esterno, ho ceduto logo, simbolo e nome. Ma ho sempre rispettato la loro autonomia politica e decisionale, anche se ho con loro un rapporto preferenziale».

— All’inizio della legislatura, quando si trattava di eleggere Mauro Pili alla presidenza, lei fece un appello a non trasformare la Sardegna in un”Canile di Arcore”. Cos’è cambiato?
«Come non mi considero facente parte della maggioranza che governa lo Stato, così non faccio parte della maggioranza che governa la Sardegna».

— Un ultimo argomento. I contrasti sullo Statuto hanno fatto esplodere anche il caso dell’Authority portuale di Cagliari, perché è stato lei a proporre la nomina del suo amico Valentino Martelli.
«L’impegno di utilizzare sul piano pubblico l’esperienza maturata da Valentino Martelli in Senato, che non è che non volle continuare ma che non fu in grado di farlo per il veto di An, era stato preso nel momento in cui egli aveva accettato il mio invito di subire il veto. Devo dare atto all’amico Gianfranco Fini, con il quale erano sorti dei malintesi con mio grande dispiacere, che egli con una lettera a me indirizzata a cui ha allegato una lettera dello stesso segno indirizzata al ministro, di aver dichiarato di rimettersi senza riserve o veti alla scelta del ministro».

— Il coordinatore regionale di An, Gianfranco Anedda, ha però rinnovato il veto.
«Ho sentito da Cagliari delle insistenze, certo nobilmente motivate dal punto di vista non solo politico ma anche ideologico e culturale, che hanno esclusivamente a che vedere con lo spirito di servizio di cui si vuole dare testimonianza arraffando carriere. Da un gentiluomo come Anedda non me lo sarei aspettato. Non si può essere validi uomini politici, ed egli lo è, se non si sa essere grandi nelle cose grandi e non si sa essere piccini nelle cose piccine».